Màkari, l’ultimo “cuntu” di Savatteri: “Mi ispiro a Sciascia e Camilleri”
Dopo il grande successo della fiction tv Màkari, lo scrittore Gaetano Savatteri è sbarcato a Punta Secca per la presentazione del libro “Quattro indagini a Màkari”, in occasione della rassegna letteraria “Libri d’aMare”. Insieme a lui Domenico Centamore, uno degli attori principali della fortunata serie, che ha incarnato la figura di Peppe Piccionello, amico e spalla del protagonista Saverio Lamanna (interpretato da Claudio Gioè). Savatteri e Centamore hanno amabilmente dialogato con Stefano Barone, sullo sfondo del mare di piazza Belvedere, spaziando dal libro, alla sceneggiatura, dai singoli personaggi alle riprese della seconda serie, che verrà registrata a partire da settembre. Per i pochi che si sono persi le puntate di questa fortunata serie televisiva ne sintetizziamo la trama.
Saverio Lamanna, noto giornalista, dopo essere stato licenziato dal ruolo di portavoce per un influente uomo politico, torna nella sua Sicilia, nel golfo di Màcari. Lì riscopre la passione per la scrittura. Inoltre, animato da una profonda curiosità, comincia a seguire, in maniera del tutto autonoma, un percorso da investigatore indagando su tutti i casi del luogo. Ad accompagnarlo nell’affrontare gli intriganti misteri saranno Peppe Piccionello, eccentrico e sbadato amico, e Suleima, determinata studentessa di architettura. In occasione della sua presenza a Punta Secca, il 21 luglio, Gaetano Savatteri ci ha rilasciato un’intervista esclusiva.
D: Tanti sono i giornalisti che decidono di diventare scrittori però, a differenza di quanto pensano in molti, tale passaggio non è così scontato in quanto il linguaggio giornalistico è molto diverso da quello narrativo. Come ha vissuto questa esperienza? Quando è nato il desiderio di scrivere un libro?
R: Io sono di Racalmuto, il paese di Leonardo Sciascia, quindi sono già cresciuto in un luogo a dimensione letteraria. Ho studiato ad Agrigento: un luogo letterario. Andavo al mare a Porto Empedocle: un altro luogo letterario. Vivendo in una dimensione dove da una parte c’è il libro e dall’altra c’è la casa, affronti l’adolescenza in modo particolare. A differenza di quanto dice Pirandello, che la vita o la si vive o la si scrive, io penso che la vita la si vive solo scrivendola o raccontandola con altri mezzi, per esempio il video, la radio. Quindi, per me la scrittura è sempre stata legata ad entrambe le dimensioni. Quando, a 18 anni, ho iniziato a fare il giornalista, quell’impegno mi ha sovrastato per tanto tempo perché richiedeva energia. Per molto tempo la mia scrittura è stata giornalistica perché in Sicilia, fino al ’92 il periodo delle stragi, non potevamo che scrivere di quello. Stavamo in mezzo ad una guerra. Dopo il ’94, quando con Camilleri si è aperta la possibilità di una scrittura diversa, allora ho scritto il mio primo romanzo, una storia avvenuta a Racalmuto relativa a un sindaco ammazzato nel ’44 e raccontata da Sciascia, sul quale io ho ricamato e approfondito. Mi ricollego al mio paese, alla mia storia, alle mie radici. Alla fine, il giornalismo e la narrativa è vero che hanno canoni e linguaggi diversi, ma fondamentalmente si tratta di raccontare storie. Storie prese dalla realtà, storie prese dall’invenzione, ma fondamentalmente sono un “cunto”. Che sia vero o immaginario sempre un “cunto” è. “Un cunto è un cunto, ma cunta come si cunta”.
D: L’autore all’interno del libro mette un po’ di sé stesso. In questo caso, in Saverio Lamanna quanto c’è di Gaetano Savatteri?
R: C’è tanto quanto c’è di Piccionello, perché io sono anche Piccionello. Piccionello è Giufà, è quello che prende alla lettera le parole, senza destrutturarle come facciamo noi. Questo demistifica il potere che, invece, usa le parole per ingannarci, per manipolarci, per farci dire con le stesse parole cose diverse. Lui è un po’ come Sancho Panza, soprattutto Giufà che è la maschera dell’autenticità, della saggezza popolare, senza paura dei luoghi comuni. Paradossalmente Giufà, senza mai parlare dei luoghi comuni, li smonta, li fa a pezzi, e li riporta alla loro falsità di fondo come fa Piccionello. Saverio Lamanna è la nostra parte di siciliani cerebrali, siciliani che hanno letto molti libri e che vivono in Sicilia con una difficoltà di relazioni, chiedendosi sempre, come diceva Sciascia: “Si può essere siciliani? Come si può essere siciliani?”. Piccionello, invece, viene prima o viene dopo, non si pone la domanda, lo è e basta. La relazione di Lamanna è di tipo cerebrale, intellettuale, di testa, mentre quella di Piccionello è un rapporto di pancia, dove prevalgono le relazioni umane su quelle intellettuali. L’uno senza l’altro non possono esistere. Dentro ciascuno di noi c’è un Piccionello ed un Lamanna.
D: In Màcari si esprime la sicilianità nelle persone ma anche nel contesto ambientale. Quanto è stato impegnativo descrivere sul libro, quindi far comprendere al lettore questa sicilianità senza le immagini, i suoi profumi, i suoi colori, il suo territorio a chi non la conosce?
R: Il problema casomai è opposto. Come fai a descrivere la Sicilia, la regione più raccontata, più cinematografata, più fotografata? C’è una Sicilia e c’è un’idea della Sicilia. Come fai a metterti dentro la Sicilia ignorando tutto questo? Smontando tutto questo. Dentro ognuno di noi c’è un’idea della Sicilia, giusta o sbagliata, stereotipata. L’idea è quella di restituire la Sicilia della nostra generazione, dove tutti parlano e pensano in italiano, a differenza di Sciascia, Camilleri e Bufalino che dicevano: “Noi pensiamo in siciliano e traduciamo in italiano”. Noi, invece, siamo una generazione di siciliani che pensano in italiano e che, molto spesso, il dialetto non lo abbiamo imparato a casa, ma a scuola, in strada. Il dialetto è la nostra seconda lingua, non la prima. Il siciliano l’abbiamo dovuto imparare per relazionarci con il venditore ambulante, con la nonna. Noi siamo cresciuti parlando in italiano, siamo alfabetizzati, abbiamo fatto le scuole. Per molti della mia generazione l’italiano è stata la lingua dell’affrancamento. Una Sicilia che parla in italiano ma con un paesaggio che parla il dialetto, e con questo deve fare i conti. È stato il mio tentativo di giocare su questo doppio registro, una Sicilia che è sempre la stessa ma siamo noi che siamo cambiati.
(Si ringraziano Domenico Occhipinti e Cristian Recca, per aver reso possibile l’intervista, e Silvio Rizzo per le foto)